martedì 26 aprile 2011

CONFLITTO ISRAELO- PALESTINESE ( ATTO II ) : LEBANON

Quattro soldati all'interno di un carro armato. Fuori la guerra. Questa la trama di "Lebanon" film vincitore nel 2009 della Leone d'Oro come miglior film al Lido. 
Diretto da Samuel Maoz, ex-soldato israeliano, il film è ambientato interamente all'interno di quel carro. Così come per i soldati al suo interno, anche per lo spettatore la visuale delle vicende esterne è rappresentata dal mirino del mezzo, attraverso cui vediamo gli orrori di una guerra, quella del Libano, di recente tornata alla ribalta a causa delle vicende d'attualità che riguardano il conflitto fra palestinesi e israeliani , oggi nel pieno del suo sviluppo, sia perché il cinema, in questi ultimi anni, ne ha trattato il tematica. 
Il confronto con il suo precedente illustre, "Valzer con Bashir" (Link), sembra essere quasi inevitabile. Ma questo non può esserci visto che, per quanto entrambi perseguano lo scopo di mostrare gli orrori e l'irrazionalità della suddetta guerra, ciascuno per sé segue un percorso totalmente differente rispetto all'altro. 
Se il film di Folman presenta una visione onirica e allucinata, tipica della rielaborazione psicologica di un trauma, "Lebanon" sceglie la strada del realismo estremo, giocato su un'immedesimazione totale che va a discapito degli elementi stilistici. L'unica concessione drammatica che si concede Maoz è il voler insistere sul volto delle vittime, degli oppressi palestinesi, che nel guardare dritti verso il carro armato sembrano guardare chi vi è dentro e, di rimando, lo spettatore che può solo assistere al raccapricciante spettacolo; si elide in parte il realismo in favore dell'impatto emozionale.
"Lebanon" è una visione d'impatto, un modo nuovo di raccontare un qualcosa che il cinema cerca di rappresentare, sotto molteplici sfaccettature, da sempre.
Ma è la componente realistica ad essere vincente: ci fa sedere accanto ai soldati, ci fa annusare l'odore di sudore misto a carburante e ci fa perdere l'innocenza, tema portante di tutto il film. Alla fine i quattro protagonisti non sono altro che dei ragazzi usciti da poco dall'adolescenza, certamente non pronti a combattere e a uccidere vite innocenti. E quel guscio di lamiere che li protegge diventa una centrifuga di paure, timori, rabbia ed alienazione. In questo senso è eloquente la scena in cui uno dei quattro, dopo aver vissuto momenti di terrore ed aver rischiato di morire, inizia a radersi la barba come se si trovasse a casa sua in tutt'altro contesto, ipnotizzato e ormai assente rispetto alla realtà in cui si trova in quel momento.
L'abilità di Maoz è sopratutto qui, nel calarci in una dimensione bellica vista da soldati inesperti, ragazzi che si perdono nei discorsi tipici della loro età e reagiscono come potrebbe reagire qualsiasi persona di fronte a un qualcosa a cui non sono pronti. Lo fa senza retorica e lasciandoci, nel movimenti finale che cita "Apocalypse Now" (non posso dirvi altro), un residuo di umanità: la speranza.

Habemus Judicium:

Bob Harris

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