lunedì 9 maggio 2011

"BLOODY SUNDAY": FINTA CRONACA DI UNA TRAGEDIA VERA

«How long? How long must we sing this song?»; erano gli anni '80 e gli U2 cantavano al mondo le violenze del 30 gennaio 1972, emblema dell'odio intestino che aveva infestato gli animi di cattolici e protestanti nord irlandesi.
Quel giorno doveva esserci solo una pacifica marcia di rivendicazione, ma si trasformò in un bagno di sangue. E purtroppo parliamo di sangue puro, anzi il più puro. Il sangue di chi ha ideali nei quali crede immensamente e che non sceglie di realizzarli con la violenza, ma percorrendo la via più difficile: sopportare e reagire pacificamente. Tutte le vittime della domenica di sangue erano disarmate, indifese e persino prostrate all'aggressore. Alcuni furono colpiti alla spalle, altri vennero finiti dopo essere stati feriti e immobilizzati. E poi c'era John Johnston che a quella manifestazione neanche partecipava, stava andando a trovare un amico e morì pochi mesi dopo per le ferite riportate.
I parà inglesi spararono sulla folla perché avevano perso il controllo della situazione; alla confusione ed al panico non seppero reagire adeguatamente. Tra i militari non mancarono gli esaltati, quelli che non aspettavano altro che riversare il loro disprezzo sul popolo irlandese, godendosi appieno l'esaltante carneficina di cui si stavano rendendo protagonista. 
Questo almeno è, in parte, ciò che ci mostra il regista Paul Greengrass.
"Bloody Sunday" appartiene alla categoria dei Mockumentary, finti documentari che tanto vanno di modo di questi tempi. Appartiene al genere ed allo stesso tempo sfugge da esso. Difatti, a differenza degli altri, la storia rappresenta un evento reale e non è frutto della mente di uno sceneggiatore. E la sfida sta tutta qui, nel mostrare un accadimento storico in modo documentaristico, quasi come se la camera fosse stata lì a riprendere, in quelle ore concitate. Cosa impossibile quel giorno di gennaio, non tanto per i mezzi dell'epoca, quanto per la gestione della vicenda. 
Per anni quegli eventi vennero insabbiati distorti dal governo di sua maestà.
Si arrivò ad affermare persino che tutte le vittime fossero armate e avessero avuto atteggiamenti ostili nei confronti delle truppe inglesi. A rendere giustizia sono arrivati i risultati della commissione d'inchiesta istituita da Tony Blair nel '98, la quale ha riconosciuto (nel 2010) la falsità delle dichiarazioni rilasciate nel '72 dai soldati inglesi.
Ma torniamo al film.
La macchina da presa segue freneticamente le ore antecedenti al massacro. La soggettiva si focalizza sul personaggio di Ivan Cooper, protestante membro del parlamento nord irlandese ed organizzatore dell' Associazione dei diritti civili dell'Irlanda del Nord. Si passa tra i giovani che si recano alla manifestazione; si giunge all'altra parte della barricata, tra le file dei soldati e dell'alto comando inglese.
Ne viene fuori un film concitato, in cui si respira la celebre calma prima della tempesta ed in cui oscuri presagi anticipano i fatti che di lì a poco accadranno.
La tensione cresce con le lunghe sequenze dei preparativi della manifestazione. Nell'aria si respira la loro ansia mista ad eccitazione. La fotografia è fredda e dominata da colori scuri, ci trasmette il cupo di un ambiente che vive una situazione irreale, quasi da scenario post-apocalittico.  Il montaggio frammentario e spezzettato, tipico dei documentari, e l'assenza di una colonna sonora ci calano in realismo tangibile.
"Bloody Sunday" funge poi da inchiesta, mostra il perché gli eventi presero quella piega, suggerendo un nesso causale tra gli eventi ed il fenomeno di ribellione armata allora nascente: l'IRA.
E quando, ai titoli di coda, parte la canzone degli U2, si crea un raccordo emotivo fra le shockanti immagini fin lì mostrate e la reazione dello spettatore.
Non c'è espiazione nel film, così come non ci fu nella realtà. E consci di ciò, si può solo provare un profondo senso di ingiustizia. "Bloody Sunday" non è niente più di questo e non vuole esserlo. La verità ci è stata per lunghi anni negata ed il film non solo ce la restituisce, ma ce la vuole mostrare, vuole che lo spettatore si immedesimi e si senta parte di una delle pagine più nere della storia recente. Una visione dolorosa, ma necessaria.

Habemus Judicium:
Bob Harris

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