sabato 4 giugno 2011

"BLADE RUNNER": UN NOIR ESISTENZIALISTA CHE SI TINGE DI POESIA

«Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi...».
Questa frase molti di noi l'hanno già sentita ed usata, magari, senza saperne la provenienza.
Entrata ormai nella memoria collettiva, essa si pone come incipit del breve e incisivo monologo finale del personaggio chiave di un film che ha rappresentato la quintessenza del cinema contemporaneo: "Blade Runner".
L'opera cyberpunk di Ridley Scott uscì nel 1982 senza riscuotere successo. Si segnalò solo per gli strascichi polemici che  accompagnarono la sua realizzazione e distribuzione conditi da celeberrimi battibecchi fra regista e protagonista, l'attore Harrison Ford che interpreta Rick Deckard, e divergenze con la produzione che mutilò e modificò alcune parti del film, per renderlo il più accessibile possibile ad un vasto pubblico.
Negli anni fu ampiamente rivalutato, divenne un vero e proprio cult del cinema, cosa che permise l'uscita, nel 92, del Director's Cut, versione del film come era stata voluta inizialmente dal regista, che ci restituisce tutta la profondità testuale ed espressiva del film, essenziale per poter arrivare a coglierne appieno il messaggio.
La trama è presto detta: in un futuro prossimo il mondo è in decadenza, soggetto ad un inquinamento cronico che crea un clima piovoso perenne. Le città sono in rovina, chi può fugge nelle colonie spaziali, la terra è ormai abitata da poveri e malati (scartati alle selezioni per le colonie). Per svolgere le mansioni più pericolose gli uomini si avvalgono di replicanti in tutto e per tutto simili ad essi, ma molto più forti e resistenti, che hanno una vita di breve durata (4 anni) e non sono in grado di provare emozioni. Alcuni di questi replicanti, modelli Nexus 6, schiavi nelle colonie extramondo, si ribellano e fuggono sulla terra. Spetterà ad un Blade Runner, Deckard, il compito di ritirarli.
A complicare le cose il fatto che Deckard si innamori di uno di essi.
"Blade Runner" è poesia pura: ci presenta un mondo distopico e crepuscolare, un futuro che non ha futuro, in cui una stanca razza umana, perfettamente esemplificata nel personaggio di J. F. Sebastian (giovane colpito da invecchiamento precoce, che vive solo e circondato dai giocattoli da lui creati, unici suoi amici e contatto "umano"), si trascina avanti senza uno scopo né un senso nella propria esistenza; il tutto accompagnato dalle note blues, dimesse e malinconiche di Vangelis.
Il futuro che si presenta nel film non è la tipica visione futuristica fino a quel momento concepita, ovvero quella di un futuro asettico e patinato: è un universo sporco e barocco, pieno di ammennicoli e cianfrusaglie impolverate, di abiti stravaganti e coloriti. In questo si vede pesantemente la mano del regista, che, similmente aveva sperimentato con "Alien".
In Blade Runner dominano colori scuri e ambientazioni buie, anche di giorno, come se gli esseri umani vi si nascondessero impauriti e rassegnati. La pioggia batte continuamente sugli edifici squallidi e abbandonati a se stessi, le navicelle sfrecciano al di sopra di una città, la Los Angeles del futuro, confusa e affollata di anime in declino.
A questa visione squallida e moribonda si contrappone la forza vitale ed energica dei replicanti: individui puri e ingenui, forti e dominanti. Lo spettacolo della vita nel teatro della morte.
Non è un caso che gli unici personaggi positivi e sani del film siano i replicanti stessi, archetipi dell'unione dell'essere con la sua natura, lontani dalla dipendenza tecnologica che diviene schiavitù. Essi rappresentano lo Ubermensch nietzschiano, il super io che è alla ricerca di sé, prossimo a conseguire un'onnipotenza che lo eleverà al di sopra di ciò che è sempre stato.
Ma i replicanti sono anche novelli Iperione, titani alla ricerca della propria identità, in lotta con un mondo che ha paura di loro e che, per questo, ha deciso di schiavizzarli.
Anche in questo risiede la tragica poesia di "Blade Runner": l'impulso vitale e più puro è condannato a essere soppresso, a favore di un'esistenza in procinto di spegnersi.
Tema ricorrente sono i ricordi: i personaggi affogano costantemente i pensieri nei propri ricordi, incapaci di guardare al domani. Non a caso elemento onnipresente del film sono le fotografie, specie di ricordi materiali, prove tangibili di un passato a cui si rimanda costantemente e a cui i protagonisti mostrano di essere morbosamente attaccati.
Altro tema preponderante del film è il concetto di umanità: se gli umani sono meno "umani" dei replicanti, tale concetto perde il senso tradizionale. In che modo ci si può riconoscere in una razza incapace di provare e trasmettere sentimenti, priva di solidarietà verso il prossimo e, anzi, arroccata nell'individualismo sfrenato e nella paura del diverso?
Non è un caso che nell'arco del film i replicanti, tacciati di non poter provare emozioni, siano gli unici, invece, a veicolarle. Ma poi siamo sicuri di parteggiare per gli uomini? E se in realtà aspirassimo a vivere  come i replicanti?
Ridley Scott gioca molto sulla questione dell'identità fra umani e replicanti (beffardo in questo senso lo slogan della Tyrrel Corporation: "più umano dell'umano"), instillando il dubbio (che, anzi, è una certezza) che Deckard stesso sia un replicante (tesi avvalorata dalla scena del sogno dell'unicorno, che risulterà essere un innesto artificiale e si ricollega alla presenza nella scena finale dell'origami a forma di unicorno). Si pone quindi il classico dilemma di rapporto fra soggetto e oggetto, il cogito ergo sum Cartesiano: ci chiediamo cosa sia il mondo intorno a noi; gli oggetti che ci circondano sono tali o, invece, sono soggetti anch'essi come noi? Gli altri provano i miei stessi sentimenti? Ma poi esistono questi altri o sono parte della mia immaginazione?
E come non rimanere affascinati dal personaggio di Roy Betty, il capo dei replicanti ribelli, figura tragica ed eroica nella sua lotta contro il suo destino di morte, personaggio affascinante e carismatico che si rivelerà spietato ma anche leale e tenero, nel suo attaccamento alla vita e ai sentimenti. Che dire, poi, della storia d'amore fra Deckard e Rachel (interpretata da una Sean Young quanto mai criptica e meccanica), fragile e sensuale replicante della Tyrell Corporation, anch'essa destinata al ritiro? Un amore impossibile e condannato.
 Deckard, però, sembra aver recepito dai replicanti un messaggio importante: dal momento che si è mortali e soggetti alla fugacità dell'esistenza, sempre in procinto di passare dall'io al non-io, bisogna vivere ogni istante della propria vita come fosse l'ultimo, smettere di trascinarsi passivamente fino alla propria fine, godendosi ciò che ci resta di bello, che la sorte ci ha concesso.
Blade Runner si chiude con un finale dolce, che ha un forte retrogusto amaro, un messaggio di speranza che, però, dovrà fare i conti con la realtà: «It's too bad she won't live!But then again who does?». E così sia.

Habemus Judicium:

Bob Harris

2 commenti:

  1. I miei più sinceri complimenti Bob, bellissimo il film e bellissimo il post, l'ho letto tutto d'un fiato!

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  2. Ti ringrazio! e sono contento che tu sia uno di quelli che sa apprezzare la grandezza di questo capolavoro. Al prossimo.

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