giovedì 23 giugno 2011

"SAW" E I SUOI FRATELLI: CHE LA MATTANZA ABBIA INIZIO!


In principio fu Tobe Hooper con "Non Aprite Quella Porta".
Seguirono film italianissimi partoriti dalle perverse menti dei vari Deodato, Lenzi e D'Amato (tanto per ricordarne uno a caso è d'obbligo citare "Cannibal Holocaust"[LINK]).
Poi tante piccole sottoproduzioni, specie nipponiche.
Arriviamo al nuovo millennio e assistiamo alla nascita degli "Hostel" (1 e 2) "Old Boy" e, soprattutto lui: "Saw".
Di cosa parlo? Mi riferisco a un genere cinematografico ben definito e, ormai, di elevata tiratura.
Un tempo si usava definirlo splatter. Il termine si riferiva, e ancora si riferisce, a un certo tipo di cinema, contraddistinto dall'uso massiccio di effetti speciali sanguinolenti e disgustosi, allo scopo di mostrare il più possibile mutilazioni e carneficine varie.
La particolarità del genere consiste nel fatto che tali devastazioni fisiche non sono funzionali allo svolgimento della trama, ma, anzi, sono l'oggetto del film, vero fulcro del potenziale di intrattenimento della pellicola. In fondo se prendete qualsiasi dei film italiani splatter anni 70', veri e propri paradigmi del genere e fonte di ispirazione anche per registi hollywoodiani (vedi Tarantino e Rodriguez), sarà ben chiaro che tali opere non presentano alcuna trama che raggiunga anche solo lontanamente la soglia della decenza (intesa dal punto di vista artistico, la decenza morale non è mai stata presa neanche in considerazione).
L'obiettivo della macchina da presa indugia morbosamente sui  particolari raccapriccianti, ma non in modo sadico e perverso, pare quasi un innocente scrutare ciò che da sempre è stato considerato tabù in un cinema fino allora patinato e discreto. Così scene orripilanti si presentano allo spettatore del tutto spoglie da connessioni psicologiche. L'orrore diviene perciò reazione alla visione di corpi straziati e deformati. Come dire non è il come, ma il cosa a crearlo.
Negli anni successivi si sviluppa una diversa componente del cinema splatter: il sadismo. Punto di svolta in tal senso (escludendo "Old Boy", che rappresenta solo un gustoso antipasto) è rappresentato da "Hostel". Il film, diretto da Eli Roth (non a caso grande appassionato degli splatter italiani anni 70/80') che, grazie al suo straordinario successo di pubblico, porta alla nascita di una definizione più precisa, di un sottogenere dello splatter: il torture porn
A dire il vero già per "Non Aprite quella Porta" si può parlare di torture porn, dal momento che è la storia di una famiglia cannibale, che si nutre di malcapitati procacciati dal mostruoso e sfigurato figlio Leatherface, il quale si fa largo urlando e brandendo una motosega, cosa profondamente sadica.
L'elemento del genere, come detto, connotativo è il sadismo, per cui non è più l'oggetto macabro a inorridire e spiazzare lo spettatore, ma il modo in cui si sviluppano certe situazioni; diviene fondamentale la componente psicologica. Lo spettatore, facilitato dalla costruzione, negli anni, di personaggi via via sempre più complessi, si immedesima completamente in essi, subendo anch'egli la violenza  a cui è sottoposto il personaggio.
Il modo in cui tale violenza si articola decreterà il successo di un torture porn. Più si giocherà con le  speranze e le aspettative del pubblico, più si otterrà la sua destabilizzazione psicologica, accentuata dal fatto che, solitamente, in questi film non vi è catarsi finale, niente lieto fine; dinnanzi a questo Gran Guignol 2.0, allo spettatore rimane solo l'angoscia ed il senso di ingiustizia
Se "Hostel" rappresenta la nascita del genere, il suo cavallo di battaglia è rappresentato da "Saw", saga longeva e alquanto fruttuosa, giunta al settimo (e ultimo) capitolo.
La trama è semplice: un maniaco, che si fa chiamare Jigsaw, rapisce delle persone apparentemente in modo casuale, sottoponendole poi a machiavelliche torture; lo scopo di tutto ciò è far capire ai malcapitati l'importanza di vivere. Quasi mai però la vittima riesce infine a salvarsi, data l'estrema difficoltà delle prove; quand'anche ci riesca il prezzo sono terribili menomazioni.
Proprio in questo sta la novità e l'ingrediente vincente di "Saw": mettere il personaggio di turno, e quindi lo spettatore, di fronte a una dolorosa scelta, che di fatto lo porterà ad auto-infliggersi il male che subirà, mostrato in tutta la sua crudezza, senza escludere il minimo particolare.
Colpisce poi la fantasia perversa che mostrano gli autori nella creazione delle trappole.
Nell'arco della saga se ne contano a decine, tutte ben architettate, spesso geniali, specie per la loro caratteristica di rispondere alla legge del contrappasso. Così per il razzista la punizione sarà quella di strapparsi via la pelle, dimostrando che sotto di essa siamo tutti uguali. Oppure un dirigente di una grande compagnia assicurativa, abituato a decretare la sentenza di vita o di morte dei propri clienti, dovrà decidere quali dei suoi collaboratori salvare e quali lasciare perire in una terribile giostra di roulette russa.
Altro elemento ben riuscito è la sceneggiatura.
Per quasi tutta la serie si mantiene un alto livello di suspense nell'intreccio narrativo, con continui colpi di scena e rivelazioni.
Il tutto ben incastrato in un meccanismo complesso che crea, grazie all'uso dei flashback sparsi in modo continuo, diversi piani temporali a livello narrativo, fino all'epilogo finale.
La serie sembra subire l'influenza dei serial televisivi ed in particolare di "Lost": anche se vengono sparsi qua e là indizi e particolari rilevanti ai fini della storia, per tutta la durata della saga, alla fine  nulla viene lasciato al caso e ogni tassello va a completare il mosaico finale.
Interessante è anche il possibile dibattito creato dalla questione morale sottesa nella serie. Viene spontaneo infatti chiedersi se siano più immorali e sbagliate le azioni compiute da Jigsaw o quelle per cui vengono accusate le sue vittime.
In fondo, spesso ci troviamo di fronte a personaggi cinici e senza scrupoli; il dirigente della società assicurativa è l'emblema di questa categoria di vittime, così risoluto nel decidere sulla vita altrui e manifestazione in carne ed ossa della visione pessimistica dell'umanità insita in tutta la serie; dall'altro lato Jigsaw il quale, per quanto ragioni secondo una morale deviata e conservatrice (elemento di satira del film), ma comunque coerente, e li sottoponga a torture indicibili, non decreta mai la loro vita o la loro morte, lasciando sempre ad essi un pur minimo margine di scelta.
L'unico elemento davvero scadente della serie è la recitazione (se si esclude Tobin Bell nella parte di Jigsaw), spesso insufficiente e a volte ridicola per gli alti standard americani (da noi invece le capre che recitano nel film sarebbero subito accolti come maestri, specie se paragonati alle Martina Stella e Scamarcio di turno, ai quali una visitina di Jigsaw non farebbe proprio male...), un peccato se si pensa che, per il resto, la serie si mantiene omogenea e coerente.
Nel complesso è un' opera che vi consiglio di vedere, ma solo se avete stomaci forti.

Bob Harris

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