venerdì 14 aprile 2017

L'ANGOLO DEL CULT #1: "CANNIBAL HOLOCAUST" (1980) DI RUGGERO DEODATO


In uno speciale sul cinema splatter scritto tempo fa, Saw e i suoi fratelli: che la mattanza abbia inizio (link), citammo un po' di film, tra i quali l'italiano "Cannibal Holocaust", opera del 1980 del regista lucano Ruggero Deodato
"Cannibal holocaust" rientra nel filone del cannibal-movie, un sottogenere dello splatter legato alle tematiche del cinema di avventura e talvolta portato, in curiosi ed originali progetti, nell'alveo dell' erotico/porno (un esempio su tutti "Emanuelle e gli ultimi cannibali" di Joe D'amato).
Questo sotto-genere nasce e si sviluppa in Italia a partire dagli anni '70 ed a fare da apripista è "Il paese del sesso selvaggio" (1972) di Lenzi (il quale tornerà sul genere nel 1980 con "Mangiati vivi") dove si vede la prima scena di cannibalismo.
Il cannibal-movie, a prescindere dai gusti personali, è un'innovazione importante per il genere horror, lo allontana dalle tipiche ambientazioni notturne, portando la violenza e l'orrido ad una piena esposizione visiva.
Il film di Deodato è, a torto o ragione, il più celebre del lotto, una pellicola da alcuni considerata un vero e proprio cult, da altri un'esposizione gratuita di violenza infarcito di razzismo e imperialismo, reso oggetto di culto più dalle censure che subì (tagliato pesantemente in oltre 50 paesi, bandito in Sud Africa, Regno Unito, Filippine ed Islanda) che da pregi cinematografici.
Fatta questa doverosa premessa passiamo al film.


Il viaggio nel "Cannibal Holocaust":
Iniziamo dalla storia.
Quattro giovani reporter si recano in Amazzonia per girare un documentario per la TV sulle tribù che praticano il cannibalismo. Trascorrono 6 mesi dall'inizio della spedizione e di loro non si ha più alcuna notizia.
Un antropologo newyorkese, Harold Monroe viene messo a capo di una spedizione, ed assieme a due guide locali, si addentra nella foresta per far luce sulla misteriosa scomparsa.
Monroe incontra belve feroci, tribù cannibali e tracce inquietanti che lasciano presagire qualcosa di tremendo. Attraverso un impervio percorso si giunge al ritrovamento dei giovani, delle loro attrezzature e di tutto il materiale girato.
Si apre una la discesa verso un'eccitazione malata mostrata nei più minimi particolari: villaggi incendiati, animali squartati, torture, abusi, stupri ed omicidi a danni degli indios. Si apre il "Green Inferno"di Deodato.
Il tessuto narrativo di tutta la seconda parte del film si basa sulla visione del materiale girato recuperato; siamo dinnanzi ad un mockumentary, espediente narrativo che anticipa di quasi 30 anni l'idea del celebre "The Blair Whitch Project" (1999). 
La metodologia seguita da Deodato è ingegnosa.
Per rendere il falso documentario più reale possibile, gira tutte le scene con la telecamera a mano, e, al posto della pellicola a 35 mm usata per il resto del film, opta per una meno cinematografica da 16 mm (1). Non ancora del contento del risultato prende le pellicole le butta a terra, le calpesta e le graffia.
L'obiettivo di Deodato è uno solo: trasformare la finzione cinematografica in una storia vera.
C'è di più, gli attori che muoiono nel film, per contratto, devono stare per un po' di tempo lontane dai riflettori: tutto deve essere il più credibile possibile.
A tutto ciò si aggiunge un'intensa campagna pubblicitaria con slogan promozionali ad effetto: «Avvertimento, gli uomini che vedrete mangiati vivi sono gli stessi che hanno filmato queste incredibili sequenze»; «Cruel * Barbaric * Authentic»; ed ancora, «in 1979 four documentary filmmakers disappeared in the jungles of South America while shooting a film about cannibalism... Six months later, their footage was found».
Il gioco del regista funziona. Pure troppo.
Ad alcuni sorge il dubbio che il film possa essere uno snuff movie ed in men che non si dica dai giudizi sul valore estetico della pellicola si passa ad una discussione dai toni sempre più surreali.
Nel Regno Unito il film viene inserito in una black list che ne impedirà la distribuzione per molti anni.
A Bogotà Deodato rischia il linciaggio. Il fonico del film, forse per farsi pubblicità, forse per scherzo, afferma che "Cannibal Holocaust" è una pellicola girata per denigrare la cultura degli Indios. Non contento rincara la dose descrivendo il regista lucano come un pazzo sanguinario che ha fatto realmente uccidere dei nativi sul set per rendere le riprese più veritiere.
Risultato: durante una festa Deodato è costretto a fuggire, rincorso da alcuni colombiani presenti. Si ripara in una fattoria per una settimana e scortato da un boss locale, prima con un'auto corazzata, poi con un elicottero, giunge all'aeroporto più vicino dove prende il primo aereo per Miami.
In Italia si apre un processo a carico del regista e dei produttori, i quali si vedono costretti a portare in tribunale gli attori assassinati per dimostrare la finzione cinematografica.
Deodato e soci si devono poi difendere dall'accusa di torture e sevizie su animali.
Tra questi una tartaruga gigante protagonista di una delle sequenze più brutali della cinematografia: la testuggine viene trascinata fuori dal fiume dai documentaristi che, in stato di eccitazione, la sventrano. Immagini reali queste.
La giustificazione? Sono riprese di valore documentaristico. Si rappresenta, spiega Deodato al giudice, niente di più di quello che le tribù locali fanno quotidianamente. A suffragare questa posizione il fatto che sia gli indigeni presenti sul set, nonché alcuni dei componenti della troupe, abbiano mangiato tutti gli animali uccisi.
Fatto sta che si devono attendere quattro lunghi anni prima che la Cassazione ponga fine alla storia assolvendo gli imputati, riabilitando la pellicola e facendola finalmente giungere nelle sale cinematografiche. Il lungo lasso di tempo trascorso ed il nugolo di proteste avevano però fatto perdere interesse alla pellicola ed allontanato il pubblico dalle sale. In Italia "Cannibal Holocaust" fu un mezzo flop. All'estero un successo clamoroso.
Un carnaio di polemiche, un processo e tante censure.
Ma cos'è in realtà "Cannibal holocaust"?
E' davvero, usando le parole di dizionari e della critica, una violenza fine a se stessa composta da scene di bassa macelleria volto a raggiungere un inutile e cinico sensazionalismo?
Per chi scrive la risposta è no, o almeno non è del tutto così.
E' un film crudele, con scene orribili, non si può negare. Deodato indugia tanto sulla violenza, facendolo sembrare quasi un esercizio sadico fine a sé stesso.
Ma "Cannibal Holocaust" è molto altro.
Gli aspetti tecnici, sottolineati in precedenza, lo fanno essere un laboratorio cinematografico di grande interesse. E' un film curato in ogni suo dettaglio, basti pensare all'intensa colonna sonora di Riz Ortolani che accompagna perfettamente l'incalzare delle immagini.
Poi c'è il contenuto narrativo. La brutalità non è gratuita, ma viene piegata e diviene strumento critico. "Cannibal Holocaust" non è altro che una cruda e lucida critica ai mass media, sempre pronti a strumentalizzare la violenza ed a distorcere la realtà ai fini di audience; un percorso contenutistico che sarebbe stato seguito un decennio dopo da Oliver Stone con "Assassini nati", anche'esso caratterizzato dall'utilizzo di più formati di pellicola (35 mm, 16mm e 8mm).
"Cannibal Holocaust" dietro il suo impatto visivo orripilante e destabilizzante, è un'opera di demistificazione, rovescia il punto di osservazione e mostra una visione pessimistica della società occidentale, così sicura della propria superiorità rispetto ai selvaggi eppure ancora governata da leggi primitive e sanguinarie.
Cari lettori, prendetevi un gastroprotettore e guardatevi "Cannibal Holocaust", scoprirete un cinema italiano coraggioso e sperimentatore, un vortice di pregi e difetti assenti nel piattume odierno. Ne vale la pena.

Habemus Judicium:
Ismail

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