lunedì 27 novembre 2017

"NEL NOME DEL MALE" (2009) DI ALEX INFASCELLI

Tra le prime produzioni Sky italiane si annovera questa mini-serie in due parti dal titolo "Nel Nome del Male". Ora dovessimo giudicare un' opera dal titolo la dovremmo cassare totalmente e irrimediabilmente. E invece il film di Alex Infascelli va considerato il capostipite (insieme a "Quovadis, Baby?", "Boris" e "Romanzo Criminale") delle produzioni nostrane televisive di qualità che hanno aperto la strada ai vari "Gomorra" e "Suburra". 
Siamo nel 2009 e l'emittente di Rupert Murdoch sforna questa mini-serie ambientata nella provincia triestina delle sette sataniche, ponendosi incredibilmente tra i primi ad affrontare direttamente questo tema, oggetto di tanto folclore e mistificazione, ma anche di una cronaca nera che è dietro l'angolo del nostro recente passato, oltre che realtà italiana (e non) tanto presente quanto occultata. 
Baldassi è un imprenditore di calzature del nord Italia come tanti. 
Vive una vita scandita dal quotidiano rituale borghese della famiglia, del lavoro e della socialità forzata della realtà provinciale. Suo figlio Matteo è un ragazzo di 16 anni da far invidia a ogni famiglia: educato, composto e poco pretenzioso. 
Un giorno Matteo scompare all'improvviso. Baldassi deciderà allora di mettersi personalmente sulle tracce del figlio e, nel suo percorso di ricerca, verrà a conoscenza di un mondo perverso e spietato, di cui, insospettabilmente, faceva parte Matteo. 
A voler fare i guastafeste, potremmo stare ore su ore a parlare dei difetti che si palesano lungo tutto l'arco del film. Tra l'altro sarebbe un giochino molto spontaneo, a giudicare della popolarità e della fiducia di cui gode il cinema nostrano, che ha come conseguenza un' ipercriticità delle opinioni medie rispetto a qualsiasi prodotto made in italy. 
E invece diamo ad Infascelli ciò che è di Infascelli, cioè il merito della riuscita del prodotto. 
Perché, fondamentalmente, non si parla di un regista improvvisato, come spesso si vede nel panorama cinematografico italiano, bensì di un appassionato conoscitore della settima arte in primis e del mezzo in secundis. Che poi, dopo il pregevole "Almost Blue", abbia diretto quello schifo del "Siero della Vanità" e "H2Odio", questa è un'altra storia. 
Partendo addirittura ad analizzare i titoli di testa, un mix tra voce femminile gutturale che sembra improvvisare rime a caso, montata su immagini tra il caricaturale e l'intrigante, li si potrebbe considerare tranquillamente una pacchianata esagerata ed è vero, ma è quel pacchiano che ha un retrogusto gradevole. Per quanto si faccia riferimento, nei titoli di coda, alla realtà delle sette sataniche, l'opera cerca, con tutta se stessa, di inquadrarsi nel genere thriller a tinte horror e lo fa nel modo più manieristico possibile, cosa che dà gioco facile ad eventuali detrattori ma che, nei fatti, si rivela una carta vincente. 
Infascelli è abilissimo nell'immergere lo spettatore nell'atmosfera dal gusto macabro ed evocativo dell'occulto, nel contesto della provincia paranoica, con i suoi misteri, le sue facciate e le sue penombre; in un gioco continuo di luci soffuse, chiaroscuri e fumi delle ambientazioni notturne, contrapposte ai freddi e composti colori dei paesaggi friulani diurni. 
Funzionano anche le prove attoriali, in modo inaspettatamente piacevole, risultando calibrate e mai troppo caricate, stante il rischio altissimo di scadere nel ridicolo. Questo è un punto fondamentale in un film che gioca costantemente sulle sfumature dei personaggi, sulle loro ambiguità e sulle loro maschere; purtroppo però Fabrizio Bentivoglio, che qui è l'attore di cartello, non regala un'interpretazione degna di nota, apparendo svogliato e limitando il suo personaggio a una dimensione piuttosto banale e piatta. 
Ciò stride clamorosamente con alcuni personaggi tratteggiati invece in modo più accattivante: il risultato è che, spesso, i loro dialoghi, metaforici ed enigmatici, interagendo col protagonista, si infrangono contro la sua scontatezza e il suo mollume. 
Come detto la trama è tutt'altro che esente da difetti: presenta diversi passaggi a vuoto, riempitivi fine a se stessi, per dare più colore e stile; non mancano poi incongruenze e piccole contraddizioni qua e là nelle soluzioni narrative, ma tutta roba che si perdona ampiamente. 
In conclusione siamo di fronte a un'opera costruita in stile polanskiano, giocata sulle ambiguità dei personaggi e sulla sensazione di complottismo, del trust no one, che non si tira indietro nel mostrare il marcio sotto il tappeto di una certa società votata al culto estremo del perbenismo, capace di coprire ogni efferatezza e di esaltare la sottomissione al proprio carnefice.

Habemus Judicium:
Bob Harris

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