lunedì 4 settembre 2017

"LOST IN TRANSLATION - L'AMORE TRADOTTO" (2003) DI SOFIA COPPOLA

Quello che andrò a recensire oggi è IL film.
Stilare classifiche ed ordini di preferenza, in generale quantificare il valore di un'opera artistica, credo sia sempre e comunque un'operazione riduttiva. Chi scrive di cinema a livello professionale è costretto a farlo per esigenze di audience. D'altronde viviamo in una società che dà un valore numerico ad ogni cosa, perciò è abbastanza naturale che il lettore medio si aspetti di avere un responso chiaro e un giudizio che salti immediatamente all'occhio. Ma ciò non toglie che qualsiasi opera andrebbe valutata tenendo presente una molteplicità di elementi ed aspetti che necessitano valutazioni ben più analitiche. 
Dopo questa palloso excursus sulla critica al consumo vi spiego perché "Lost In Translation" è, per me, IL film e perché si pone in cima ad una mia ipotetica lista di film preferiti: semplicemente rappresenta tutto ciò che desidero vedere in una pellicola. 
Cosa molto soggettiva. Così come è soggettiva la pelle d'oca che mi provoca la visione.
Mi rendo conto che, senza dubbio, la presente è un'esposizione molto intima. Ma, a ben vedere, l'unico elemento che potrebbe condizionare la mia valutazione, rispetto a quella di un qualsiasi altro spettatore, è la mia sconfinata passione per la terra del Sol Levante. Ma anche chi è indifferente al gusto orientale si troverebbe di fronte a una perla del cinema contemporaneo.  
A Tokyo si incontrano, per caso, due anime perse nel loro cammino personale di (non) vita. Charlotte e Bob vivono due esistenze all'apparenza invidiabili, realizzate nell'essere scandite dal raggiungimento di traguardi ambiti dalla società: lei giovane moglie al seguito del marito fotografo, lui attore consumato di fama mondiale, in città per girare lo spot di un noto whiskey giapponese. 
Quando vidi per la prima volta questo film non ero mai stato in Giappone, ma esso riuscì comunque a trasmettermi quel senso di spaesamento che solo chi ha potuto vivere un'esperienza da quelle parti può provare.
La sensazione quasi indescrivibile di essere in un luogo così familiare e allo stesso tempo distante da noi: l'esasperazione dell'occidentalità innestata su una cultura totalmente estranea alla nostra, criptica ed escludente. Si viene catturati della sua maestosità, pervasi dalla sua vitalità e affascinati dalle mille manifestazioni della sua tradizione, ma anche della sua modernità. Eppure si rimane sempre e comunque gaikokujin.
Queste sono le sensazioni che provano i due protagonisti, che sperimentano un doppio livello di solitudine: essere stranieri catapultati a Tokyo ed inchiodati a passare gran parte del tempo in un gigantesco hotel. 
"Lost In Translation" non è solo una favola sulla speranza di trovare qualcuno che comprenda appieno la nostra personalità, senza che essa necessiti di essere spiegata, tradotta; ma è soprattutto la sensazione immensamente dolce e terribilmente amara di essere al posto giusto nel momento giusto.
Già perché questo è un film fatto di momenti: momenti che si insinuano lentamente e, lentamente, si spingono verso l'ineluttabile svanire. Perché, anche se il momento è quello giusto, sono i tempi che non coincidono e non coincideranno mai; perché nella vita reale non c' è spazio per amori impossibili e non c'è possibilità di dare un colpo di spugna alle proprie scelte passate: i primi piani di Sofia Coppola sui visi dei due protagonisti (completamente assorbiti nei loro personaggi) esaltano questa consapevolezza, espressa nei loro sguardi complici e malinconici.
La poesia di questa immensa metafora della vita sta tutta in questo senso di incompiutezza e di sottile inquietudine che ci portiamo appresso anche e, soprattutto, nei momenti di passeggera felicità; "non voglio partire...", "E allora non partire, resta qui con me..." : questa, signori, è una delle più struggenti dichiarazioni d'amore della storia del cinema, riassunta in un breve scambio di battute.
Ma "Lost In Translation" è pur sempre una commedia e non mancano i momenti di geniale e raffinata ironia, personaggi e situazioni buffe, giocate sulle differenze e sulle bizzarrie culturali e che contornano una pellicola scandita sui ritmi della leggerezza, anche quando si tratta di fare sarcasmo sul (mai abbastanza) vessato trend hollywoodiano. 
Ma, visto che questa pellicola non si fa mancare nulla, la raffinatezza della colonna sonora innestata su immagini di una bellezza contemplativa tanto nella forma quanto nel suo oggetto, regalano una visione che appaga delicatamente i sensi. 
E poi c'è quella scena finale, un'accelerata improvvisa in un percorso emotivo costruito in modo lento e costante. Le parole sussurrate da Bob a Charlotte ci sono negate, come è giusto che sia. Ormai il rapporto che si è instaurato tra i due è così intimo da avere la necessità di estromettere, finalmente, anche lo spettatore. Il resto è "Just Like Honey" dei Jesus and Mary Chain. 
Bob e Charlotte, che lo vogliate o meno, siamo noi e, d'altronde, io sono sempre stato Bob Harris. 

Habemus Judicium:


Bob Harris

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