giovedì 29 marzo 2018

MADE IN NETFLIX #1: "MINDHUNTER" (2017) DI DAVID FINCHER

Non ci si può approcciare a "Mindhunter" semplicemente entrando su Netflix e premendo il tasto play. Le crime series sono praticamente all'ordine del giorno e diventa davvero difficile scegliere autonomamente a quale indirizzarsi. A complicare il tutto c'è il fatto che alcune di queste vengono pompate all'inverosimile, risultando poi, nei fatti, prodotti televisivi poco più che usa e getta (ovviamente lo spettatore medio probabilmente ci vedrà un capolavoro).
Nel 1977 Holden Ford, agente dell'FBI, assieme al collega Bill e alla psicologa Wendy, inizia a studiare una nuova tipologia di assassino, il cosiddetto serial killer e un nuovo metodo di indagine per identificare il colpevole, chiamato profilazione, andando in varie prigioni degli Stati Uniti ad intervistare tutti i più famosi pluriomicidi. 
Allora, la prima garanzia di qualità salta subito all'occhio: prodotta e DIRETTA da David Fincher. Non che il regista americano sia un genio assoluto del cinema, ma certamente è uno dei grandi esecutori dell'orchestra. E poi c'è quel legame speciale con il thriller, nato ai tempi di "Seven", proseguito con cult come "Fight Club" e "Gone Girl" e con intermezzi riusciti quali "Panic Room" e "Uomini che odiano le donne".
A parte la regia affidata ad una stella, cosa ha di diverso "Mindhunter" dalle mille serie che trattano di serial killer? Beh, che non si avvale della figura del serial killer per creare un'atmosfera di suspense e non ne tratteggia la personalità per dare colore al tutto.
Qui si parla dei veri serial killer, di quelli che ormai sono talmente celebri da essere considerati delle rockstars, nomi che sono finiti nell'immaginario comune e sono realmente considerati leggenda.
Non c'è alcun bisogno di sbizzarrirsi (ed esagerare) nell'inventarsi una qualche loro psicosi. Non li si butta in mezzo per renderli i villains della situazione, in un costante partita a scacchi, giocata sui nervi, con i detective di turno. A parte i moralismi e gne gne gne, è cosa nota che le personalità antisociali e psicolabili sono tra le più affascinanti e carismatiche.
Il bello di questa serie sta proprio nel suo mostrare questa verità e nel trattare queste grandi menti deviate come fossero delle bestie rare. E la serie gioca tanto sull'effetto "sono tra di noi, ma non sappiamo chi", per mantenere alta l'attenzione e la curiosità dello spettatore. Non a caso, in una scena, la psicologa Wendy riassume questa idea in una frase, rispondendo così a un perplesso Holden, che si chiedeva, riferendosi a Nixon, come potesse esserci stato un presidente degli Stati Uniti affetto da psicosi: "la domanda è come si potrebbe essere presidente degli Stati Uniti senza essere psicotici."
Quando Holden inizia a sperimentare lo studio del metodo di profiling, per iniziare a raccogliere materiale, decide di andare a intervistare Ed Kemper, uno dei più efferati omicidi seriali: l'attesa per l'arrivo del "mostro", il primo scambio di sguardi e battute hanno un sapore cinematografico finissimo e, a pensarci neanche troppo, ma neanche troppo poco, la mano di Fincher pare essenziale. 
A livello tecnico non si può fare a meno di notare il taglio cinematografico della messa in scena nelle carrellate, nei piani sequenze o nei dolly. Così come ha ben poco di televisivo la ricerca continua di pause sceniche di una certa intensità e i dialoghi ricercati e introspettivi (vero è che si parla di psicologia, ma ciò viene fatto con cura maniacale al particolare). 
Poi vabbè, ormai il livello recitativo dei serial (inteso come serie) è elevato, data la partecipazione di fior fior di attori, anche se, in questo caso, ci troviamo di fronte a volti poco noti. A fronte di un protagonista pupazzoso e, per lunghi tratti, irritante, "Mindhunter" beneficia di prove straordinarie quali quelle di Anna Torv, nella parte di Wendy, e, soprattutto, Cameron Britton in quella di Ed Kemper, vero protagonista della prima stagione.
Ci sarebbe anche di mezzo una storia d'amore tra Holden e la studentessa di sociologia Debbie, ma è davvero un escamotage per allungare il brodo e dare uno spessore a un personaggio che pare non averne troppo, ma si rivela banale e stereotipata (basta solo vedere che roba inguardabile è la scena del loro primo incontro). 
Che tutto ruoti attorno al fascino perverso dei serial killer di fama nazionale è reso palese da una serie di intrecci secondari che paiono essere meri riempitivi, tra una loro apparizione e l'altra. 
La gestione saggiamente dosata dell'intreccio principale lascia già intendere che, anche per le successive stagioni, ci sarà molta carne al fuoco e la possibilità di mantenere sempre un alto livello di interesse (e di ascolti). Perché, alla fine dei conti, questo ibrido tra un pizzico di romanzato e storia reale sembra essere un'idea tanto banale quanto vincente, ovviamente messa nelle mani giuste, come in questo caso.

Habemus judicium:
Bob Harris

Nessun commento:

Posta un commento