lunedì 18 dicembre 2017

L'ANGOLO DEL CULT #4: PET SEMATARY (1989) DI MARY LAMBERT

«I don't Wanna be burieeed in a pet semataryyy, I don't want to live my life agaaaiiin! » cantava Joey Ramone. E perché il frontman del gruppo punk newyorkese più famoso al mondo non voleva essere sepolto in un cimitero di animali? Perché quel cimitero è stato costruito di fianco ad un altro cimitero, indiano e malefico! 
Tra i punti più eccelsi della bibliografia di Stephen King, "Pet Sematary" è oggetto, alla fine degli anni '80 (1989 per la precisione), di una trasposizione cinematografica: la prima, ma non l'ultima, essendo in cantiere la realizzazione di un nuovo adattamento, previsto per il 2019.
In sintesi: cast ignoto e un po' anonimo, regia lineare, ma con dei pregi, e colonna sonora da urlo.
Basta aver letto anche solo un'opera di King, e non per forza l'omonima da cui è tratta questa pellicola, per rendersi conto che tale adattamento cinematografico racchiude e sprigiona l'humus orrorifico, morboso e malinconico tipico dello scrittore del Maine.
"Pet Sematary" fa paura, abbastanza paura. 
C'è qualcosa nella pellicola che dà un sentore di sinistro e malato, che va al di là dell'elemento paranormale su cui si basa.
È un qualcosa che lo accomuna ad un altro classico del cinema horror 80: "Hellraiser". 
Entrambi parrebbero film di serie B nati per sguazzare nel genere, ad uso e consumo rapido. Eppure si respira in essi un'aria pestilenziale, che non abbandona lo spettatore dopo la visione. Un tale fenomeno accade quando un'opera dell'orrore rappresenta le passioni umane nella loro essenza più parossistica, come un immenso scrigno che le  racchiuda e le sprigioni tutte assieme. 
Quando una visione diventa un'esperienza di questo tipo non c'è catarsi per lo spettatore, ma solo un opprimente senso di angoscia e turbamento. 
Non succede quasi nulla nel film, almeno secondo l'ottica di un cinema contemporaneo ipercinetico, costretto a tirar fuori ogni due per tre un trucchetto ad effetto, per tenere lo spettatore sufficientemente sveglio.
L'orrore sta tutto lì, ossia nel quotidiano incedere di un'esistenza appesantita dalla costante minaccia della sua caducità, dal dolore del convivere con un lutto e dall'impossibilità della sua piena elaborazione. Una visione crepuscolare che ha il merito di portare avanti con coerenza un mood sommesso e angosciante/angosciato.
Detto della mediocrità stilistica di attori e regia, tuttavia le due componenti rendono in maniera efficace. Ci sono almeno due o tre sequenze che restano impresse nella mente, senza più possibilità di dissolversi. Peccato per l'utilizzo eccessivo dell'espediente macabro dell'apparizione ectoplasmatica di Pascow: di forte suggestione visiva, via via che se ne abusa nell'utilizzo durante l'arco del film, essa viene inflazionata e ridotta a macchietta, protagonista di svariati sketch, cosa che fa a pugni con l'atmosfera lugubre del film e risultante essere un boomerang clamoroso. Da questo punto di vista il libro di King aveva saputo dosare tale elemento con grande maestria ed era dovere della produzione tenerlo presente. 
Privo di elementi iconici e cifre stilistiche (ad eccezione della summenzionata soundtrack), oltreché di un pathos davvero coinvolgente, pur scandito su ritmi cadenzati, "Pet Sematary" trova comunque la sua via e, avvolgendo lo spettatore in una nube di pena e tormento, sprigiona una certa potenza visiva in alcune sequenze davvero raccapriccianti e disturbanti.


Habemus iudicium:
Bob Harris

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